domenica 10 aprile 2016

LA SOCIALIZZAZIONE

La socializzazione
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Cos’è socializzazione?
La socializzazione è il processo attraverso il quale gli individui apprendono le capacità, gli atteggiamenti e i comportamenti relativi ai ruoli sociali.
Grazie ad essa si compie la continuità sociale, dal momento che consente di trasmettere norme e valori da una generazione a quella successiva.
In sostanza il processo di socializzazione è ciò che garantisce la riproduzione di una cultura.
Alcuni aspetti fondamentali della socializzazione
Semplificando, si può affermare che sono tre gli aspetti fondamentali della socializzazione:
·              Le aspettative di ruolo;
·              La propensione alla conformità;
·              La modifica del comportamento.
La socializzazione non è un processo standardizzato e chiuso, ma più che altro una “negoziazione” continua tra socializzatori e socializzati, costantemente aperta alla possibilità di mutamento degli standard comportamentali e dei modi di vedere le cose.
La sociobiologia
Alcuni autori, tra i quali il famoso sociobiologo Edmund O. Wilson, sostengono che i comportamenti umani e i processi di socializzazione sono massicciamente influenzati da fattori genetici e biologici, il cui peso sarebbe addirittura maggiore di quello dei fattori culturali.
L’approccio sociobiologico è stato criticato da più parti, anche perché al momento non esistono prove decisive che colleghino determinati geni a certi tipi di comportamento.
Socializzazione, natura e cultura
Al di là del radicalismo della sociobiologia, sembra evidente che il processo di socializzazione presenta determinanti sia di tipo genetico che di tipo culturale e storico.
Il rapporto tra natura e “cultura” -che ha luogo nella società e si esprime soprattutto nel processo di socializzazione- è stato letto da diversi orientamenti sociologici in modo anche molto differente.
Sigmund Freud [1929] sosteneva che la componente biologica dell’uomo, istintiva e impulsiva, è in irriducibile conflitto con la componente culturale che impone agli individui di reprimere gli impulsi sessuali e aggressivi biologicamente fondati.
Socializzazione, natura e cultura (segue)
Altri (come Malinowski) hanno invece sostenuto che la struttura sociale è un meccanismo “costruito” in modo da gratificare le pulsioni biologiche dell’individuo, consentendo una loro composizione sociale.
Il matrimonio e la famiglia, ad es., sarebbero istituzioni che permettono di gestire gli impulsi sessuali e riproduttivi degli individui; gli sport sono pratiche che riescono ad incanalare le pulsioni di aggressività, e così via…
La teoria dell’io riflesso
Grazie alla socializzazione l’individuo sviluppa una propria singolare personalità, in funzione sia di tratti biologici e culturali, sia dello specifico contesto in cui vive (la famiglia, il gruppo dei pari etc.).
Charles Cooley sosteneva che la personalità individuale si forma grazie all’interazione tra individuo e mondo secondo lo schema dell’io riflesso, nel quale interagiscono i seguenti 3 fattori:
1.         Ciò che l’individuo pensa che gli altri pensino di lui;
2.         Come l’individuo pensa che gli altri reagiscano a ciò che pensano di lui;
3.         Come l’individuo, a sua volta, reagisce alla reazione percepita negli altri.
La socializzazione secondo Mead
George H. Mead, partendo dallo schema di Cooley, approfondì l’analisi delle dinamiche di socializzazione.
Secondo Mead la personalità (il Sé) si forma attraverso tre fasi distinte:
1.         La fase dell’imitazione
2.         La fase del gioco libero
3.         La fase del gioco organizzato
Il meccanismo di socializzazione si regge su una serie di percezioni delle aspettative degli altri. L’insieme di queste aspettative costituisce un punto di vista composito che Mead chiama “altro generalizzato“.
Sé – Io – Me
Mead ritiene che il Sé consti di due istanze interagenti: il ME e l‘IO.
Il Me esprime l’interiorizzazione da parte del singolo dei comportamenti del gruppo (ed ha una funzione di controllo sociale), mentre l’Io rappresenta la componente di originalità insita nella risposta “unica” dell’individuo alle pressioni dell’ambiente che gli derivano dall’interazione (e soprattutto dal processo di socializzazione).
Sebbene l’Io sia un prodotto dell’interazione, esso non è semplicemente un riflesso passivo bensì una risposta attiva dell’individuo al processo di socializzazione.
Gli agenti della socializzazione
Le istituzioni, le organizzazioni, i gruppi e le persone che contribuiscono al processo di socializzazione vengono definiti agenti di socializzazione.
I genitori e la famiglia sono il più antico e potente agente di socializzazione.
Tra gli altri agenti fondamentali devono includersi: la scuola, il “gruppo dei pari” e – negli ultimi decenni – i vari mass-media.
Alcuni meccanismi della socializzazione
Soprattutto nella socializzazione dei bambini, sono 4 i meccanismi fondamentali:
·              l’imitazione: cioè la riproduzione consapevole di un modello di comportamento;
·              l’identificazione: relativa ai meccanismi di adozione inconsapevole di comportamenti degli agenti di socializzazione;
·              la vergogna: come conseguenza della inadeguatezza comportamentale scoperta dagli altri;
·              il senso di colpa: che è una sorta di punizione auto-inflitta.
Imitazione ed identificazione sono meccanismi incoraggianti, vergogna e senso di colpa sono meccanismi inibenti.
La socializzazione senza fine
Obiettivo primario della socializzazione è l’inserimento dei nuovi nati nella società, cosicché i primi possano apprendere meccanismi di vita e la seconda possa perpetuarsi.
La socializzazione dunque si rivolge principalmente ai bambini e agli adolescenti.
Tuttavia, sarebbe un errore pensare che essa si esaurisca con il termine dell’adolescenza.
In realtà la socializzazione continua, con meccanismi leggermente differenziati, per tutta la vita dell’individuo.
La ri-socializzazione
Per risocializzazione si intende il processo di apprendimento di valori, comportamenti, competenze, ruoli che vanno ad integrare o a sostituire quelli già precedentemente appresi in modo errato o incompleto o, semplicemente, ormai inadeguato.
Nella risocializzazione possiamo ricomprendere, ad es., programmi di formazione e/o riconversione professionale, programmi di rieducazione …
Molti ritengono che la stessa psicoterapia sia in realtà un tipo di risocializzazione.
La socializzazione alla vecchiaia
Così come i nuovi membri vengono socializzati alla vita, gli anziani vengono socializzati alla vecchiaia e alla morte.
L’intensità della socializzazione rivolta agli anziani, però, è assai variabile a seconda delle culture.
Se in alcuni contesti i valori di riferimento spingono al reinserimento dell’anziano, in altri l’attenzione per gli anziani è minore.
Il rischio è quello di una insufficienza o di un’assenza di preparazione alla vecchiaia. In tal modo, essa tende spesso ad essere un periodo indifferenziato, scarsamente caratterizzato dariti di passaggio (come accade invece per le altre età) e definito solo in negativo (ciò che non si è più).
Socializzazione e differenze di classe
Molti autori ritengono vi sia una forte relazione tra esiti della socializzazione e la classe sociale.
Attraverso una vasta indagine campionaria (condotta in USA e Italia) Kohn, nel 1969, dimostrò come i genitori della classe media cercassero di sviluppare nei loro figli un atteggiamento flessibile verso l’autorità, laddove gli operai attribuivano maggior valore al conformismo e all’obbedienza. Inoltre, genitori professionalmente impegnati in attività lavorative meno strutturate (artisti, giornalisti etc.) cercherebbero di indurre i figli all’autonomia e all’iniziativa individuale molto più di genitori dediti ad un’attività lavorativa strutturata e ripetitiva.
Socializzazione e mutamento
La socializzazione riesce generalmente su “larga scala” eppure essa non riesce mai in modo perfetto; nel senso che non si risolve in un trasferimento totale della cultura da una generazione ad un’altra.
Dal punto di vista della collettività il “fallimento” della socializzazione da un lato è foriero di tensioni e devianze, dall’altro di dinamiche di miglioramento attraverso il mutamento. Dal punto di vista individuale, invece, esso può generare una capacità (riconosciuta dal contesto) di innovare, ma anche la mancata accettazione dell’individuo da parte del gruppo.
Perfino molti disturbi gravi della personalità dipendono da un “malfunzionamento” della socializzazione.


LA CULTURA

Il concetto di cultura
Nel mondo animale gli esseri umani sono unici per il fatto che il loro comportamento è (per la gran parte) non istintivo e non “geneticamente programmato”.
Kluckhohn ha illustrato con grande chiarezza quale sia l’elemento che dà forma ai comportamenti umani, consentendone l’apprendimento e la trasmissione intergenerazionale (seppur con certe variazioni). Agli esseri umani può essere insegnato a pensare, sentire, credere, agire … in modi simili nell’ambito di ogni gruppo ma non identici; perfino atti fisiologici come starnutire, camminare, dormire … vengono eseguiti in modi differenti in tempi e luoghi diversi. È in questo l’essenza della cultura (Cfr. Kluckhohn, 1967, 22-23).
Cultura e socializzazione
La cultura consiste dunque in valori, norme, regole e ideali generalmente condivisi da un determinato gruppo e che consentono a quel gruppo di funzionare e di permanere nel tempo. Essa viene trasmessa da una generazione all’altra attraverso lasocializzazione.
È la socializzazione che consente ai nuovi membri di un gruppo (per es. i bambini) di acquisire la cultura che gli permetterà di interagire con gli altri.
Come meglio si vedrà in seguito (lezioni n. 4 e 7), la socializzazione è un processo imperfetto che non sempre “riesce” completamente, esso deve tuttavia riuscire su scala massiccia, pena la morte della cultura.
Gli universali culturali
Ci sono tante e significative differenze tra diverse culture ma esistono anche molti tratti in comune. Alcuni elementi possono essere riscontrati in tutte le culture e vengono definiti universali culturali.
George Murdock, negli anni ‘60, ne individuò una sessantina, tra cui: il tabù dell’incesto, la danza, lo sport, l’ornamento del corpo …
L’esistenza degli universali culturali è spiegabile, secondo molti antropologi, con le costanti fisiologiche che caratterizzano la specie umana: l’esistenza di due sessi, la debolezza fisica dei bambini, il bisogno di cibo, etc.
Critica al concetto di universale culturale
Negli anni ‘70 il concetto di universale culturale fu criticato in modo piuttosto radicale da Clarke.
Pur essendo inconfutabile l’esistenza di alcune costanti fisiologiche, dei relativi bisogni essenziali e di comportamenti apparentemente identici in tutte le culture è tuttavia evidente che molti comportamenti sembrano uguali (o molto simili) ma, in realtà, sono espressione di convinzioni profondamente diverse.
La danza, ad esempio, si riscontra in tutte le culture, ma il significato che le viene attribuito da un nativo americano è molto diverso da quello attribuitole da un francese.
In sostanza, sarebbe impossibile ritrovare in tutte le culture i medesimi significati associati agli stessi comportamenti.
Etnocentrismo
Quando si parla di cultura è essenziale puntualizzare il significato di due concettii fondamentali: etnocentrismo e relativismo culturale.
L’etnocentrismo consiste nella tendenza a giudicare le altre culture in base alla somiglianza/differenza dalla propria.
Tale tendenza caratterizzava l’approccio di molti dei primi antropologi culturali che, nel XIX sec., studiavano culture di popolazioni remote e le giudicavano più o meno “selvagge” e “primitive” sulla base di un confronto con la propria cultura di origine, che dunque era assunta come metro di riferimento (da qui etnocentrismo, appunto).
Relativismo culturale
Fu il sociologo americano William G. Sumner, nei primi anni del ‘900, a criticare l’approccio etnocentrico.
Sumner sosteneva che una cultura può essere veramente compresa solo in una prospettiva “interna”, cioè sulla base dei valori suoi propri e delle caratteristiche specifiche del contesto.
Inoltre, affermava l’antropologa Ruth Benedict (1934), non solo ogni cultura va interpretata relativamente al suo contesto, ma anche “come un tutto“: nessun elemento della vita di un popolo (una cerimonia, un valore …) può essere compreso se separato dal corpus della sua cultura.
Questo orientamento è conosciuto col nome di “relativismo culturale“.
Cultura, società e individuo
Tra la società, gli individui che la compongono e la loro cultura c’è un rapporto di inscindibilità e di interdipendenza. I valori e i riferimenti culturali modellano la personalità degli individui e la struttura della società; gli individui sono gli agenti che consentono alla socializzazione di funzionare e quindi alla cultura di trasmettersi; la società fornisce il “quadro” e le strutture grazie alle quali i processi culturali e di socializzazione e le interazioni individuali possono avvenire. Allo stesso tempo si verifica la trascendenza della cultura rispetto agli individui: gli individui muoiono, mentre la cultura può sopravvivere.
Gli elementi della cultura secondo Parsons
Secondo Talcott Parsons gli elementi fondamentali di una cultura sono 4:
a) la conoscenza empirica;
b) la conoscenza esistenziale;
c) i valori;
d) la simbolizzazione espressiva.
Per conoscenza empirica si intende il complesso di informazioni riguardanti il mondo e il suo funzionamento (la scienza appartiene a questo ambito).
La conoscenza esistenziale ha a che fare con i significati assegnati alle cose e con concetti metafisici non necessariamente dimostrabili oggettivamente come veri o falsi.
Gli elementi della cultura secondo Parsons (segue)
I valori sono definibili come idee condivise inerenti gli obiettivi, le mete, verso le quali gli individui e la società devono tendere. Contengono, dunque, una valutazione relativa all’essere giusto o sbagliato, auspicabile o biasimabile delle cose. Essi costituiscono il nucleo fondamentale delle dottrine morali.
La simbolizzazione espressiva, infine, ha a che fare con la comunicazione degli altri elementi (il linguaggio, l’arte etc.). La cultura, in fondo, consiste nella trasmissione, attraverso simboli, di conoscenze empiriche, di conoscenze esistenziali e di valori.
Cultura e linguaggio
Il linguaggio si può definire come un sistema di comunicazione basato sull’uso di suoni o di simboli, verbale o metaverbale, basato su significati spesso del tutto arbitrari ma condivisi da chi lo utilizza.
È evidente il rapporto strettissimo che lega cultura e linguaggio. Fino al punto di poter affermare che non esiste una comunità umana che può funzionare come tale senza un linguaggio. La cultura può, infatti, essere trasmessa solo attraverso il linguaggio. Ma, d’altronde, senza linguaggio non esiste interazione sociale tout court.
Il linguaggio è anche un elemento fondamentale per la creazione dell’identità di un gruppo.
L’ideologia
Il termine ideologia è stato spiegato e definito in diversi modi.
Per Parsons l’ideologia è il collegamento tra mondo empirico e mondo dei valori, cioè tra definizioni della realtà e definizioni di ciò che è giusto/ingiusto, desiderabile o abietto etc.
Nel pensiero marxista l’ideologia esprime e/o difende gli interessi di un gruppo o di una classe sociale. In questo senso si distinguono ideologie conservatrici (che difendono lo status quo) e ideologie antagoniste.
Secondo Clifford Geerz [1973] le ideologie creano significati. Esse, usando simboli, connettono significati non familiari con oggetti familiari, fornendo così senso a situazioni complesse.
Conflitto culturale e anomia
Una cultura non è né statica né scevra di tensioni interne.
Varie sono le forme di conflitto culturale.
Durkheim parla di anomia (= assenza di norme) per indicare una condizione di “sfilacciamento” della società in cui la rapidità del mutamento sociale causa una inadeguatezza, o addirittura l’assenza, dell’apparato regolatorio; ciò comporta una sorta di disgregazione della cultura e, dunque, una degenerazione della vita individuale e sociale e un aumento delle situazioni conflittuali. Il concetto di anomia è centrale in opere fondamentali quali “La divisione del lavoro sociale” (1893) e “Il suicidio” (1897).
Conflitto culturale: il cultural lag
William F. Ogburn [1922] è il padre del concetto di ritardo culturale (cultural lag).
Secondo Ogburn esso si verifica quando la velocità del processo di cambiamento della cultura materiale (di cui, ad es., fa parte la tecnologia) è superiore a quella del mutamento della cultura non materiale (tradizioni, religione, valori, leggi …).
Il conflitto che si genera tra la cultura materiale e la cultura immateriale, incapace di adattarvisi in tempi adeguati, genera un lag, un ritardo, foriero di una serie di tensioni e problemi sociali.



Le sottoculture
Come già detto, una cultura non è un monolito omogeneo ma un corpus dinamico e complesso.
In una società esiste una cultura “principale” ma anche un gran numero di gruppi che si rifanno a tradizioni, valori,visioni del mondo diversi da quelli della cultura principale. L’insieme di convinzioni, norme e comportamenti che distinguono un sottogruppo da un gruppo più ampio, nel quale comunque per molti versi esso è inserito, si definisce sottocultura. Unasottocultura non necessariamente è in conflitto con la cultura dominante.
Le controculture
Talvolta, tuttavia, una sottocultura sviluppa aspetti antagonisti alla cultura “principale”: in tal caso si parla di controcultura. Tra cultura dominante e controcultura esiste comunque un interscambio piuttosto intenso. Col tempo, gli aspetti più eversivi delle controculture si smussano, mentre alcuni loro elementi vengono introiettati dalla cultura dominante che li fa propri. Ad esempio, molti comportamenti della controcultura hippie degli anni ‘60 si sono poi diffusi a vasti settori della società. In questo processo di assorbimento svolgono un ruolo fondamentale i mezzi di comunicazione di massa e, in modo minore, i fenomeni artistici.