L'aggressività

Definizione dell’aggressività

Definire il concetto di aggressività, risulta particolarmente difficile, nonostante il tema dell’aggressività, sia da tempo studiato dalle scienze umane nei suoi molteplici aspetti. L’aggressività è un fenomeno che si manifesta appunto nella specie umana quanto in
quella animale.
Tuttavia le difficoltà maggiori che s’incontrano quando c’è anche da elaborare una sistemazione chiara e definitiva del termine aggressività, si evidenziano soprattutto quando si esamina la specie umana. Nella specie animale, infatti, l’aggressività è per lo più limitata al comportamento intraspecifico, che è quel comportamento volto a nuocere o ad offendere altri membri della stessa specie.
La maggior parte degli psicologi, sono concordi nel definire l’aggressività, come l’insieme di azioni dirette a colpire uno o più individui, tali da infliggere loro sofferenze di natura fisica o morale, a volte fino alla morte (Bandura, 1973; Baron, 1977).
La difficoltà di definizione è legata, alla natura stessa dell’aggressività umana, fenomeno che assume valenze e funzioni diverse, dalle più costruttive alle più distruttive. Un motivo di confusione, deriva dal considerare sotto il termine di aggressione comportamenti diversi quali: agonismo, dominanza, assertività. La diversità delle definizioni dipende probabilmente dall’aver considerato diversi punti di vista. Si può, per esempio, considerare il comportamento aggressivo, come un tratto della personalità, un istinto, un comportamento appreso, una risposta osservabile. Inoltre nella letteratura sull’argomento, non si pratica una distinzione tra aggressione ed aggressività; in parte i due concetti, vengono considerati come sinonimi. Più spesso, però, l’aggressività sta a significare una tendenza costante ad un’azione o reazione aggressiva.
Merz definisce aggressioni, quelle azioni dirette a danneggiare direttamente o indirettamente un individuo della nostra specie (Merz, 1965). Per Becker (1969), le aggressioni sarebbero meccanismi interni o esterni, che producono un danno dell’oggetto, sia che si tratti di un danno fantasticato, progettato o realizzato. In entrambe le definizioni,
viene sottolineato l’elemento intenzionale del danneggiamento. Molti ricercatori americani, hanno tentato di escludere l’intenzione, in quanto non accessibile all’osservazione. Pertanto Buss interpreta l’aggressione, come una risposta che produce stimoli dannosi a un altro organismo (Buss,1961).
Nell’ambito della vasta letteratura psicologica sull’aggressività, numerose bibliografie hanno evidenziato come il comportamento aggressivo, lontano dal rappresentare un costrutto omogeneo, si articoli in differenti tassonomie comportamentali. I tentativi compiuti per giungere ad una definizione eterogenea di tale costrutto, concordano nell’individuazione di alcune tipologie principali. Tali tipologie sono: aggressività diretta, che si riferisce a forme di aggressione, orientata verso gli individui, allo scopo di arrecare loro un danno fisico o morale; aggressività specifica, propria di situazioni
in cui il comportamento aggressivo, è finalizzato ad ottenere oggetti o posizioni specifiche; aggressività ludica, che comprende una serie di comportamenti che pur presentando una valenza di tipo aggressivo, si verificano nel corso di un gioco o di una gara, assumendo di volta in volta significati relazionali diversi, esplorativi o competitivi.
L’eterogeneità dei comportamenti che, rientrano nella definizione del termine aggressività, la rendono un'emozione molto generica e vaga.
Per cui di recente, è emersa la consapevolezza, di non poterla più considerare come un fenomeno unidimensionale, ma di dover studiare i processi emotivi e cognitivi dell’individuo che caratterizzano i vari tipi di condotta aggressiva. Bandura (1991), distingue due livelli di definizione del meccanismo di aggressione: un livello generico, relativo alla delimitazione del fenomeno, e un livello specifico, relativo ai diversi meccanismi inclusi nella definizione.
Recenti studi, hanno rilevato l’importanza di questo secondo livello, rivalutando, da una parte, il ruolo delle differenze individuali e delle caratteristiche temperamentali, e, dall’altra, i processi cognitivi, emotivi, e relazionali che sottendono il comportamento aggressivo.
Le difficoltà incontrate nel definire l’aggressività, hanno portato Storr (1968), a concettualizzare l’aggressività come una parola-valigia entro la quale, si può mettere di tutto.
Definiamo, quindi, aggressità quella tendenza a soddisfare i propri bisogni anche in competizione con gli altri individui. Si manifesta spesso con l'aggressione. Per quanto riguarda l'uomo esistono ancora delle dispute sull'importanza attribuita ai fattori innati o appresi nella genesi dell'aggressività. Secondo la teoria psicanalitica di
S. Freud, l'aggressività è una manifestazione dell'istinto di morte, o thanatos, che rappresenta la tendenza di tutto ciò che è vivente a tornare allo stato inorganico. La pulsione di morte è, all'origine, interna al soggetto e si manifesta esternamente solo combinandosi e fondendosi (vedi fusione e defusione) con l'istinto sessuale. Nei casi normali fornisce all'individuo l'energia per la conquista delle mete pulsionali; nei casi patologici dà origine a forme sempre più gravi di sadismo e masochismo, oltre alle forme estreme sia di autodistruzione che di eterodistruzione. A. Adler vedeva invece nell'aggressività un tentativo di superare il sentimento di inferiorità. Un'interpretazione diversa fu elaborata da Dollard nel 1939 e dai suoi collaboratori con l'ipotesi “frustrazione-aggressività”. Essi svilupparono un concetto di Freud secondo cui le frustrazioni possono portare all'aggressività (cosiddetta aggressività reattiva). Secondo Dollard, quindi, ogni volta che si manifesta un comportamento aggressivo, alla sua base deve ricercarsi una frustrazione; di conseguenza veniva abbandonata ogni interpretazione del comportamento aggressivo basata su principi biologici e l'aggressività veniva a essere solo una risposta “appresa”. Appare inoltre necessario studiare approfonditamente la genesi del comportamento aggressivo soprattutto nelle prime fasi di sviluppo della personalità. Nell'uomo l'aggressività può manifestarsi, oltre che come tendenza a compiere atti ostili, con fantasie di aggressione e sensazione d'ira. Essa può rivolgersi, oltre che verso l'esterno, anche verso l'individuo (si parla allora nei due casi di etero- e auto-aggressività). Spesso l'auto-aggressività è determinata da forti influenze morali, che inibiscono una polarizzazione dell'aggressività all'esterno; secondo alcuni psicologi vi sarebbe in questo caso un'introiezione dell'immagine della persona verso cui si nutre un impulso aggressivo, che si volgerebbe di conseguenza verso il soggetto stesso. L'auto-aggressività può condurre verso lo sviluppo di neurosi (vedi psicosomatico). Se in misura accentuata, l'aggressività può costituire un sintomo sia di neurosi sia di psicosi. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, le ricerche sull'aggressività si sono incentrate sulle basi biologiche del comportamento aggressivo; in particolare sembrava di aver trovato nella presenza di un cromosoma Y in soprannumero (nei maschi genotipo XYY invece di XY) la base genetica di comportamenti particolarmente violenti. Invece molti tra gli stessi sostenitori dell'influenza sul comportamento di quest'anomalia cromosomica sostengono che tale effetto sarebbe dovuto al fatto che i portatori dell'anomalia sono di intelligenza inferiore alla norma, votati quindi all'insuccesso scolastico e professionale, e di qui più portati a comportarsi in modo antisociale. Questi dubbi hanno fatto sospendere nel 1975 negli Stati Uniti alcuni programmi di ricerca iniziati nel 1968, tendenti a individuare alla nascita tutti i portatori dell'anomalia, ritenendo che “l'etichetta” di criminali potenziali attribuita ai bambini fosse senz'altro più dannosa degli ipotetici benefici sociali che si potevano trarre dalla ricerca.
Etologia: aggressività animale
 Per aggressività si intende la pulsione che induce un animale a lottare contro i conspecifici per la priorità di accesso alle risorse vitali, inclusi il predominio nello spazio e sulle femmine. L'aggressività è quindi alla base della competizione intraspecifica. Dato il pericolo che la lotta cruenta comporta per i contendenti, e il conseguente svantaggio per la specie, la selezione naturale ha favorito in quasi tutti i casi metodi di lotta che raramente danneggiano gli animali e la possibilità per il perdente di essere risparmiato. Gli ungulati, per esempio, combattono cozzando e/o spingendosi con le corna e solo accidentalmente uno colpisce l'altro su un fianco; alcuni pesci (ciclidi, blennidi) combattono colpendosi con le pinne o tenendosi per la bocca e spingendosi reciprocamente. La rinuncia alla lotta attraverso la fuga o comportamenti di sottomissione valgono, in genere, a bloccare l'aggressività del vincitore. In natura l'aggressività si manifesta in animali sia solitari, che lottano per difendere un'area vitale, sia sociali, nei quali la capacità individuale di imporsi nella lotta porta, in genere, alla formazione di gerarchie di dominanza all'interno del gruppo. L'aggressività di un animale si esprime anche attraverso esibizioni di minaccia, che rappresentano un confronto preliminare attraverso il quale la lotta viene talvolta evitata. L'espressione della pulsione aggressiva dipende da condizioni esterne e/o interne: per esempio, l'animale nel suo territorio è in genere più aggressivo, più facilmente portato a lottare e di solito risulta vincente; in un territorio estraneo è meno aggressivo e per lo più portato a fuggire. In molte specie l'aggressività è legata alla produzione di ormoni maschili, in particolare il testosterone: ne consegue che i maschi adulti (sessualmente maturi) sono di solito più aggressivi delle femmine e dei giovani e che in essi l'aggressività può manifestare fluttuazioni cicliche in relazione all'attività ormonale. Per esempio, i cervi maschi lottano per formarsi un harem e controllare le femmine soltanto fra la tarda estate e l'autunno, periodo che corrisponde alla loro stagione riproduttiva. Perché l'aggressività si manifesti è necessaria la presenza di stimoli chiave atti a scatenarla, quali particolari caratteristiche morfologiche o comportamentali dei conspecifici. Occasionalmente stimoli che scatenano l'aggressività possono essere forniti da individui di specie somiglianti determinando una lotta interspecifica; in questo caso si parla di aggressività interspecifica. Alle manifestazioni aggressive è spesso associata una mimica espressiva del tutto tipica, che permette di distinguere il comportamento aggressivo da quello, talvolta simile, attuato per sopraffare una preda. Infatti, sebbene la lotta aggressiva possa avvalersi di moduli simili e delle stesse armi usate nella predazione, i due comportamenti, e i due concetti, vanno distinti: il comportamento aggressivo deriva dall'appetenza per la lotta, quello predatorio dall'appetenza per il cibo. Alcuni psicologi sostengono che il comportamento aggressivo è una manifestazione di natura reattiva, che viene indotta negli animali da esperienze dolorose nella competizione per il cibo o nel gioco, o che è conseguenza di frustrazioni: per esempio una scimmia sottoposta a scariche elettriche ripetute o che abbia perso una contesa con un'altra scimmia può aggredire un'altra scimmia. Gli etologi affermano invece che il comportamento aggressivo è il risultato di selezione naturale, in quanto ha valore di sopravvivenza per la specie e come tale si manifesta spontaneamente. A sostegno di questa tesi, numerosi esperimenti dimostrano che i moduli della minaccia e della lotta compaiono anche in animali allevati isolatamente (senza esperienze con i conspecifici) allorché sono messi a contatto per la prima volta con animali della stessa specie. Altri esperimenti portano a concludere che, almeno in alcune specie, esiste una vera e propria appetenza per la lotta, che l'aggressività non scaricata può essere accumulata e che, in queste condizioni, la soglia di reazione a stimoli che scatenano risposte aggressive si abbassa. La motivazione a lottare, cioè, induce l'animale a cercare attivamente situazioni in cui possa scontrarsi con un conspecifico e la lotta appaga l'animale. I topi possono superare una barriera elettrificata pur di raggiungere un avversario con cui combattere; i pesci combattenti (Betta) e i galli da combattimento apprendono un esercizio se dopo ogni esecuzione corretta si offre loro una situazione che stimoli comportamenti aggressivi, dimostrando che questa è appetita come un premio. L'aggressività può essere sotto controllo genetico, e in questo caso non viene modificata dalle esperienze di allevamento. Topi di ceppi rispettivamente molto e poco aggressivi conserveranno sostanzialmente il loro grado di aggressività sia che vengano allevati da madri molto aggressive sia poco aggressive. Sembra opinione concorde che le esperienze sociali, soprattutto quelle precoci, influenzino fortemente il comportamento aggressivo, almeno nei Mammiferi, rendendo in genere gli animali meno propensi alla lotta. D'altro canto, sempre sperimentalmente, si è dimostrato che la scarica regolare degli impulsi aggressivi può rinforzare l'aggressività, producendo una sorta di addestramento all'aggressione, mentre la loro inibizione prolungata può atrofizzarla, suggerendo l'importanza dell'educazione giovanile nel determinare le manifestazioni aggressive in età adulta.
Etologia: aggressività nell'uomo
Per quel che riguarda l'origine dell'aggressività nell'uomo esistono opinioni contrastanti, ma alcuni esperimenti suggeriscono che nella specie umana la pulsione aggressiva insorga spontaneamente e si accumuli se non viene scaricata, mentre l'attuazione di comportamenti aggressivi ne provocherebbe il rilassamento. L'invenzione di armi letali, il cui uso nei duelli è evidentemente svantaggioso per i contendenti, ha favorito in diverse culture umane lo sviluppo di sistemi cruenti ma non fatali o del tutto incruenti, e in genere governati da regole molte rigide, per scaricare l'aggressività accumulata. Gli Indios dell'Orinoco si affrontano con mazze leggere e fino al secolo scorso era costume dei giovani, in alcune regioni dell'Italia centrale, di mostrare la propria valentia praticando la “cicciata”, rissa al coltello che si svolgeva al buio e in cui le lame venivano ampiamente fasciate dalla base verso la punta per evitare ferimenti profondi. Il torneo medievale e le più moderne forme sportive di confronto individuale, quali la lotta, il pugilato, la scherma, ecc., così come i duelli verbali, spesso cantati e ricchi di ingiurie che si svolgono presso le tribù eschimesi e australiane, sono di fatto duelli ritualizzati. Queste forme innocue di duello sono state definite, riconoscendo loro una funzione catartica, “valvole di sfogo dell'aggressività”, in quanto permettono ai contendenti di imporsi sull'avversario più tramite esibizioni di bravura (che pure valgono nella specie umana a ottenere prestigio o posizione gerarchica elevata nella società), che per mezzo della sopraffazione fisica.

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