La pedagogia di J. Dewey



J.DEWEY

John Dewey nacque il 20 ottobre 1859 a Burlington, Dopo la laurea, si occupò in modo sistematico di pedagogia nel 1894, passando alla University of Chicago, dove, nel 1896, con l'aiuto della moglie Alice Chipman, fondò la University of Chicago Elementary School, concepita come laboratorio di pedagogia sperimentale. Nel 1905 lasciò l'Università di Chicago, e si recò alla Columbia University di New York, dove insegnò fino al 1929, anno del giubilamento. Non terminò, però, il suo impegno, in campo civile e politico.
Dewey fu, infatti, una figura importante in campo sociale e politico, dove incarnò, per tutta la sua lunga vita, l'ideale "liberal" della cultura democratica americana di un neocapitalismo capace di soddisfare le esigenze di libertà individuale e di giustizia sociale. Fu innocentista nel celebre processo contro gli anarchici italiani Sacco e Vanzetti (1927), fu interventista durante i due conflitti mondiali, organizzò nel 1937 il controprocesso a L. Trotskij, per liberarlo delle accuse mossegli da Stalin e nel 1940 solidarizzò con Bentrand Russel cui era stato negato di insegnare all'Università di New York per le sue idee politiche.
Roosevelt lo volle al suo fianco quando costituì il “brain trust”, gruppo di cervelli che lo affiancò nell’azione di “New Deal” che doveva portare gli Stati Uniti fuori dalla spaventosa recessione seguita al crollo della borsa di Wall Street del 1929. Mori il 2 giugno 1952 a New York.
Il
pensiero filosofico di Dewey, definito da lui stesso strumentalismo (idea centrale: la mente è strumento adattivo che riduce la problematicità dell’ambiente), rientra nel grande filone del Pragmatismo americano. Con tale termine si designa un movimento filosofico, inaugurato da Peirce e da James, che parte da una concezione della verità legata non all’idea della corrispondenza mente-fatti (verità come puro e semplice rispecchiamento della realtà), ma dalla possibilità di azione dell’uomo nel mondo (verità come strumento di orientamento e trasformazione del mondo - prassi).
Il pragmatismo intende superare il limite di fondo di buona parte della tradizione filosofica precedente, accusata di "teoreticismo", cioè di un atteggiamento caratterizzato dall'attribuire alla teoria un valore in sé, intrinseco, indipendente dal suo rapporto con la realtà e dalle sue applicazioni pratiche; dal credere che il criterio di validità di una teoria sia di natura esclusivamente teorica. Tale atteggiamento, di origine greca (cfr. il concetto di scienze teoretiche in Aristotele), riflette una mentalità di tipo contemplativo, portata ad esaltare la teoresi, cioè appunto la contemplazione disinteressata della realtà, rispetto alla prassi, cioè all'attività di trasformazione della realtà. La netta separazione della teoria dalla pratica ha una radice storica molto precisa, perché deriva da un tipo di società caratterizzato da una rigida divisione sociale del lavoro ed in particolare da una netta divisione tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale, caratteristico delle società antiche e basato sull’istituzione della schiavitù, con il conseguente disprezzo verso il lavoro manuale e le classi lavoratrici da un lato e l'esaltazione aristocratica della contemplazione disinteressata e delle attività senza fini di lucro, tipiche della nobiltà terriera, dall'altro.
Secondo le teorie della verità come rispecchiamento (definita ironicamente da Dewey “teoria del pensiero spettatore”) la verità non sarebbe altro che una riproduzione mentale della realtà esteriore, per cui la conoscenza umana sarebbe una semplice copia della realtà.
Alla base di questa concezione erronea sta un triplice errore: che la conoscenza sia un processo passivo; che essa sia il prodotto dell'attività di un soggetto ritenuto indipendente dall'oggetto, che essa riveli un oggetto (mondo reale) esistente al di là e indipendentemente dal soggetto. Secondo il pragmatismo, la conoscenza è, invece, un processo attivo: conoscere significa modificare la realtà, l'oggetto, con il pensiero.
Alla nozione tradizionale di verità come copia, Dewey sostituisce la sua "teoria dell'indagine". L'indagine è un processo di adattamento tra un organismo e l’ambiente. Secondo il criterio pragmatistico di verità, la verità di un teoria consiste, dunque, nelle sue conseguenze pratiche più o meno soddisfacenti: semplificando all’estremo, una teoria è vera se “funziona”. La teoria dipende dalla pratica in un duplice senso: da una parte perché le teorie non nascono da altre teorie, ma sorgono sempre da problemi pratici; dall’altra perché le teorie devono servire per risolvere problemi pratici, altrimenti sono inutili. La teoria, dunque, nasce dalla pratica per tornare alla pratica, secondo il circolo pratica-teoria-pratica.
Secondo Dewey, è tanto vero che la teoria affonda le sue radici nella prassi, che se l’uomo non vivesse in un ambiente che gli pone problemi adattivi in lui verrebbe meno la coscienza stessa: l’io ha un carattere “transazionale”, cioè si costituisce come coscienza e pensiero solo nell’interazione (transazione) con l’ambiente che pone problemi adattivi. La conoscenza, infine, non può essere considerato l’aspetto che esaurisce l’esperienza: prima del conoscere vengono le dimensioni dell’essere e dell’avere.
Nell’opera "Logica come teoria dell'indagine" (1938), Dewey approfondisce la sua concezione della logica definiti "strumentalismo". La ricerca scientifica (indagine) è stimolata da una situazione problematica, cioè da una perturbazione del rapporto fra l'individuo (organismo) e l'ambiente. Il pensiero nasce dunque da "una situazione perturbata, dubbia o incerta", che Dewey definisce pre-riflessiva, per mettere capo ad una "situazione rischiarata, unificata o risolta", definita "post-riflessiva". Se, per esempio, "camminando in un luogo dove non esistono sentieri regolari" ci imbattiamo in un fosso non previsto il comportamento automatico è costretto ad arrestarsi e la situazione ambientale diventa problematica. Inizia, allora, un processo di ricerca, la cui prima fase è la suggestione. In un secondo momento abbiamo un processo di intellettualizzazione della situazione problematica che consiste nell'osservare con più attenzione le condizioni che costituiscono difficoltà del problema e che hanno causato l'arresto dell'azione (si tratta di mettere a fuoco “di che problema di tratta”). In un terzo momento ci facciamo un'idea delle soluzioni possibili e la suggestione iniziale diventa una supposizione ben definita o più precisamente un’ipotesi scientifica. La quarta fase della ricerca per Dewey è il ragionamento in senso stretto, che consiste nello sviluppare tutte le implicazioni possibili di una congettura o ipotesi. Infine l'ultima fase della ricerca è il
controllo dell'ipotesi a mediante un'azione di convalida. In sintesi abbiamo: suggestione, problematizzazione, ipotesi, ragionamento, verifica. La verifica ci consente di stabilire se l’ipotesi è corretta o meno. Questo procedimento, raffinato e consapevole nella ricerca scientifica, è proprio anche dell’uomo comune, quando affronta razionalmente i problemi della vita quotidiana. Secondo Dewey, finalità fondamentale del sistema scolastico è di educare alla razionalità, cioè educare i ragazzi ad un approccio razionale (non, quindi, emotivo e acritico) ai problemi.
La Pedagogia, che nel corso di tutto l'ottocento era ritenuta una pratica fondata sull'etica, sulla filosofia, sulla teologia, o su considerazioni psicologiche di tipo empirico, incomincia con Dewey ad essere considerata una scienza autonoma, che si avvale dei contributi di altre scienze quali la psicologia (soprattutto per quanto riguarda il problema degli effetti collaterali dell’apprendimento) e della sociologia (che studia i rapporti fra istituzione scolastica e società). Dewey è anche considerato l’iniziatore dell’attivismo pedagogico, corrente che parte dalla concezione del bambino come soggetto attivo e protagonista nei processi di apprendimento.
L'educazione è, in senso ampio, fatto sociale, in quanto processo mediante il quale l'individuo assimila, fin dalla nascita, le conoscenze, le tecniche, le abitudini di vita che la civiltà umana ha prodotto nel suo sviluppo. L'educazione, in senso stretto, cioè l'educazione scolastica vera e propria, ha anch'essa un carattere sociale. Il carattere sociale dell'educazione deve investire, secondo Dewey, tutti gli aspetti del processo educativo: deve riguardare le finalità educative, perché il fine della scuola deve consistere nel favorire la socializzazione, deve riguardare i contenuti culturali, perché la scuola deve insegnare quelle nozioni e quelle capacità di cui vi è bisogno nella società, e deve, infine, l'organizzazione della scuola, che per Dewey deve essere concepita come se fosse una comunità democratica che stimola spirito di partecipazione e corresponsabilità. La scuola, di conseguenza, deve essere vita essa stessa e non preparazione ad una vita futura. Scrive a questo proposito Dewey: "L'ideale di adoperare il presente unicamente come preparazione al futuro è in sé contradlittorio… Noi viviamo sempre nel nostro tempo e non in un altro: solo estraendo in ogni momento il pieno significato di ogni esperienza presente ci prepariamo a fare altrettanto nel futuro". Ciò significa innanzitutto che l'azione educativa deve essere gratificante e significativa per l'alunno.
Coerentemente con queste convinzioni, Dewey combattè sempre per superare l'artificiosa divisione fra studi classici, non più al passo con i tempi, e studi professionali, nel tentativo di elaborare un nuovo umanesimo del lavoro. Egli predilige, quindi, le discipline scientifiche e tecniche, considerate però nel loro aspetto formativo di cultura generale e non come precoce avviamento professionale. Quella di Dewey è la proposta di un nuovo tipo di cultura che non rifiuta il valore del passato, ma tiene conto del peso sempre crescente assunto dalla scienza e dalla tecnica nelle moderne società industriali.
Centrali, nel processo di apprendimento, non sono le nozioni, ma le attitudini e le capacità ad esse connesse. In particolare, se l'alunno è riuscito a scuola ad acquisire il desiderio e la capacità di apprendere, conserverà queste abilità per tutta la vita e continuerà ad apprendere in tutte le situazioni (oggi si direbbe: imparare ad imparare, e di conseguenza imparare lungo l’intero arco della vita – long life learning -). Scrive Dewey: "Forse il maggiore degli errori pedagogici è il credere che un individuo impari soltanto quel dato particolare che studia in quel momento. L'apprendimento collaterale, la formazione di attitudini durature o di ripulsioni, può essere e spesso è molto più importante. Codeste attitudini sono difatti quel che conta veramente nel futuro. L'attitudine che più importa sia acquisita è il desiderio di apprendere. Se l'impulso in questa direzione viene indebolito anziché rafforzato, ci troviamo di fronte ad un fatto molto più grave che a un semplice difetto di preparazione ... Che beneficio c'è ad accumulare... notizie di geografia e di storia, ad apprendere a leggere ed a scrivere, se con questo l'individuo perde il desiderio di applicare ciò che ha appreso e, soprattutto, se ha perduto la capacità di estrarre il significato delle esperienze future in cui via, via si imbatterà? … Il solo possibile adattamento che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Con l'avvento della democrazia e delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione come sarà la civiltà di qui a vent'anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo ad un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla vita futura significa dargli la padronanza di se stesso ...".
La pedagogia di Dewey è centrata sul principio pedagogico fondamentale che si apprende facendo (learning by doing). Secondo la concezione pragmatistica della conoscenza, infatti, conoscere significa modificare l'oggetto, la realtà, con il pensiero, interagire con il mondo: apprendere non significa ricevere passivamente delle nozioni, ma elaborare attivamente delle idee. La scuola tradizionale è accusata da Dewey di trasformare gli alunni in uditori passivi. Deriva da qui la valorizzazione del lavoro manuale, inteso non come avviamento alle professioni, ma come educazione alla disciplina, alla socialità ed alla progettualità richieste dalle attività di laboratorio. Inoltre, i bambini che imparano a cucinare, ad esempio, non lo fanno per diventare dei cuochi di professione, ma perché attraverso il lavoro di cucina possono apprendere attivamente nozioni di zoologia, botanica, chimica, storia, e così via. La scuola elementare sperimentale di Chicago venne, perciò, organizzata da Dewey in forma di laboratorio permanente, con officine di falegnameria e di lavorazione dei metalli, cucine, laboratori artigiani per la tessitura a mano o la ceramica, laboratori di fisica e di chimica.
Al tema del rapporto fra l'educazione e la democrazia è dedicata una delle opere fondamentali di Dewey, "Democrazia ed educazione", del 1916, che tratteggia i caratteri di una educazione democratica. Tra i principali fini dell'educazione vi è la difesa e la diffusione della democrazia come modello politico. La democrazia è quella forma di organizzazione della società in cui gli individui non solo hanno la possibilità di partecipare alle scelte politiche, ma vengono sollecitati a farlo. La Democrazia consiste nel rimettere tutto continuamente in discussione, nel non accettare nulla per definitivo, nel respingere qualunque meta assoluta, che metterebbe fine ad ogni discussione. La democrazia è partecipazione, cioè, per usare le parole di Dewey, "quel modo di vita in cui tutte le persone mature partecipano alla formazione dei valori che regolano la vita degli uomini associati", o "in cui le forze individuali non dovrebbero essere semplicemente liberate da costrizioni meccaniche esterne, ma dovrebbero essere alimentate, sostenute e dirette". L’individuo, infatti, avulso dalla dimensione sociale, è impoverito, e la sua vita perde di significato. La dimensione sociale, però, dà significato alla vita dell’individuo ma non lo subordina interamente a sé. Per questo Dewey critica con uguale forza lo sfrenato egoismo di un capitalismo individualistico e selvaggio, che annulla l’autentica dimensione sociale, ed il collettivismo comunista, che annulla l’individuo. Per Dewey non esistono società perfette, dal momento che qualunque società umana, sarà sempre perfettibile, cioè suscettibile di essere migliorata. Chiunque crede nella perfezione di un modello sociale opera per soffocare le libertà ed i diritti dell’individuo. L'utopismo politico, che vuole instaurare un regime politico perfetto, genera inevitabilmente il fanatismo e l'intolleranza nei confronti di chi la pensa diversamente, dal momento che non può tollerare critiche nei confronti del modello di società
proposto, che essendo privo di difetti non può che essere accettato. Contro l'utopismo, che si propone mete lontane ed ambiziose, Dewey propone il proprio migliorismo, che si propone obiettivi più circoscritti e realizzabili nelle condizioni storiche date. Alla luce di queste convinzioni, il rapporto fra scuola democratica e società democratica è, per lui, di implicazione reciproca: non può esserci scuola democratica se non in una società democratica (i regimi autoritari o totalitari pongono sotto controllo l’educazione ai fini dell’indottrinamento politico), e non può esserci società democratica se non con una scuola democratica, che educhi i ragazzi al significato profondo della partecipazione, della socialità e della corresponsabilizzazione

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